No Use ?


Dialogo tra Ada Lilienthal e Marina Faggioli


Ada Lilienthal La serie “NoUse” comprende pezzi, “quadri”, realizzati a maglia. Spesso nel tuo lavoro vi è, come anche in queste opere, un’attenzione politica al valore che attualmente può ricoprire un modello di lavoro che comporti esperienza personale, organicità, movimento del corpo, confidenza con la natura: quello dell’artigiano, un modello che fu proprio delle società tradizionali e che è stato progressivamente escluso dalle società occidentali. L’invenzione delle contrapposizioni Cultura/Natura e Arte/Artigianato paradigmatiche della Modernità, insieme alla divisione del lavoro fordista (ove i compiti di pianificazione e dei vari segmenti dell’esecuzione risultano separati e le persone perfettamente sostituibili) hanno interrotto il flusso esperienziale e narrativo delle pratiche tradizionali e lo hanno marginalizzato escludendolo dai processi economici.
Attualmente il forte accesso delle donne alla produzione artistica ha contribuito a cambiarne le tecniche e l’uso delle fibre sembra traslocare dall’ambito dell’artigianato per diffondersi in arte. L’allestimento di “NoUse” comprende “quadri” realizzati a maglia. Che significato ha per te? Questi quadri sono le mattonelle di una grande coperta o dei Rothko ironici?

Marina Faggioli Mi interessa lavorare con lane e tessuti perché permette di creare forme articolate, aperte – virtualmente mai finite – e connessioni – cuce, lega, congiunge. Le “cose” che io produco mimano spesso in modo ludico forme naturali organiche, pseudo-botaniche ed altre forme germinanti; questo sta, da una parte, per il mio forte amore per la natura – con la quale si avverte tuttavia un distacco, una separazione –; dall’altra per una speranza, anche politica, di nuovi modi di relazionarsi, non gerarchici e più liberi. In questo caso, ho inserito sotto cornice alcuni semplici manufatti, in una specie di scherzo: la cornice, dispositivo che solitamente origina la finzione retorica e l’illusione di realtà delle immagini figurative piane dal Rinascimento in poi, viene qui come contraddetta dall’oggetto di maglia, piano flessibile, prolungabile e concreto come il lavoro che serve per produrlo, la cui scansione temporale, che è tempo reale dell’esistenza, non viene semplicemente suggerita o metaforizzata ma materialmente scandita dalle maglie, una dopo l’altra.


AL È stato rilevato in più occasioni, e magistralmente da Francesca Rigotti, come la metafora tessile sia assai frequente nella lingua ed in particolare in relazione alla scrittura e alla narrazione, in espressioni come “tessere una trama”, “tessuto narrativo”. L’antropologo britannico Tim Ingold ci dice che la tessitura, il disegno e la scrittura siano modi di raccontare con la mano, che non è da intendersi come strumento del cervello ma come una sua estensione: con la mano si pensa, si racconta e ci si relaziona creativamente con l’ambiente. Riflettendo sulla tessitura, Ingold sposta l’interesse dal prodotto al processo: l’oggetto è incorporamento di un movimento ritmico, “l’azione abile che lo produce ha una qualità narrativa (…), ogni movimento, come ogni rigo di una storia, deriva ritmicamente da quello precedente e poggia le basi per quello successivo”, l’artigiano esperto è un cantastorie i cui racconti sono narrati dal suo fare; queste narrazioni implicite sono la interpretazione creativa (adattativa e attualizzata) degli strumenti e delle loro funzioni. Cosa ne pensi?

MF Non sono mai riuscita a distinguere fra i diversi piani dell’esistenza, fra ciò che faccio concretamente – anche l’arte, ma non solo: zappare l’orto, cucinare, fare una passeggiata, persino lavare i piatti… – e il pensare. Diciamola, non ho neanche mai ben capito la distinzione fra corpo e mente. Fare per me è un modo di pensare, mi indica idee e soluzioni. Ho cominciato a lavorare con l’uncinetto e la maglia perché mi interessavano, come ho accennato, le qualità plastiche di questa tecnica: la maglia può crescere ed estendersi nello spazio adattandovisi in strutture aperte e “potenziali”, secondo modalità analoghe alla proliferazione degli organismi naturali.
Tuttavia, i manufatti in maglia comunicano affettuosamente anche memoria del corpo: certo perché usualmente lo vestono, ma anche perché ne “incorporano” il movimento ritmico del lavoro necessario per produrli. Lavorare a maglia era un tempo attività domestica e consueta, e sapiente: il movimento elabora la materia e, insieme, gli usi della tradizione, interpretandoli. Ne risulta un “tessuto” di relazioni che connette il processo del lavoro individuale alle pratiche collettive, un tessuto “democratico” di saperi uniti anche diacronicamente, nel tempo. Questo “sentire” e “pensare” con le mani, questa sapienza “incorporata”, questo riconoscere e sviluppare la storia degli strumenti e dei materiali, è la maestria dell’artigiano, che, ponendoli in sintonia con i compiti prefissati e l’attualità del contesto in cui opera, organizza significativamente questi racconti circolanti attraverso le cadenze ritmiche del gesto.
Una narrazione fatta di accoglienza, elaborazione, trasmissione.


AL Hai parlato di “usi” come pratiche e di “uso” del tessuto, ma il tuo allestimento s’intitola “No Use”.

MF Viviamo nell’era matura della razionalizzazione autoritaria e della frammentazione; l’aspirazione alla libertà individuale ci ha condotto ad aderire volontariamente ad un sistema che produce isolamento ed espropriazione di spazi, di responsabilità, di affetti ed emozioni, del corpo stesso. Si è rivelata fallace, una vera trappola. In un processo ambivalente, per esempio, l’emancipazione femminile si è dimostrata funzionale alla parcellizzazione del lavoro e al consumismo.
La realizzazione di sé “autosufficienti” ci ha consegnato alla patologia del narcisismo, alla dipendenza dal giudizio e dallo sguardo altrui, e ad una condizione di gioventù eterna, il limbo ambiguo di chi non riesce a diventare adulto. Il traguardo dell’adultità viene continuamente rimandato, anche nel lavoro, nel quale si è perennemente in formazione e aggiornamento, mentre nei fatti il mercato rifiuta il lavoratore esperto, preferendo saperi intercambiabili e frammentari in un flusso di tempo accelerato e irriflessivo. Il nostro sistema ha un pessimo rapporto con la tradizione ed ha prodotto una grande rimozione della voglia umana di raccontare, accogliere, elaborare creativamente e trasmettere, di relazionarsi. Ne è conseguita una enorme dispersione di competenze e la difficoltà se non l’impossibilità di riprodurre le condizioni stesse del lavoro. Inserire la pratica del lavoro in una dimensione narrativa, nella quale ci si dia il tempo necessario per la cura fuori dalle ragioni economiche attuali, tempo per l’attenzione e per qualcosa di più di questa, una speciale dedizione, anche passione e piacere è diventata oggi, io credo, una necessità.

Mi sono accorta di recente che la mia prassi artistica mi indica più frequentemente quel che non c’è piuttosto del contrario, qualcosa che manca, e sempre più spesso quando cerco le ragioni del mio fare. Ci sono ampie motivazioni del perché costantemente l’arte femminile parla di violenza, di privazione e della difficoltà a raccontare. Le donne della mia generazione si trovano a dover reinventare anche già l’idea che raccontare sia legittimo. A dover riconoscere cosa e come raccontare. Siamo quasi sempre figlie di donne mute, spesso abbiamo figlie altrettanto mute. Speravamo di imparare un’arte e di vivere di questa, molte di noi hanno fatto molto per diventare maestre delle proprie arti e alcune lo sono persino diventate. Il resto lo taccio. Ecco: gli oggetti che io produco assomigliano a qualcos’altro e ricordano oggetti d’uso, ma, in realtà, "non servono a niente".